Che cosa rappresenta lo studio per un artista? Un rifugio, un laboratorio, un luogo del pensare e del fare? E come provare a descrivere uno spazio che registra le tracce della creazione, il faticoso processo che porta dalla potenza all'atto, dalla mano all'opera? È un compito, almeno a prima vista, impossibile, perchè dovrebbe raccontare un'operazione che non smette mai di compiersi. Tela dopo tela, foglio dopo foglio, materia dopo materia.
Entrare in uno studio è anche andare oltre, uscirne, perdersi, sognare. Soprattutto è nascere insieme con l'artista, essere generati o rigenerati dalle sue opere. Trovarsi di fronte al suo paradossale autoritratto. Convivere con quello che egli ci lascia di sé: i suoi sguardi, le sue interrogazioni, i suoi gesti.

1) Cos'è l'atelier per te? Un luogo di lavoro, di pensiero, di accoglienza?
2) Quanto ti suggestiona lo spazio?
3) Da quando sei in questo atelier?
4) Quale lo studio che ricordi con più nostalgia?
5)  Come sono i tuoi rapporti con il territorio e le sue strutture culturali ?
6) Verona (e la sua storia) ti hanno aiutato a mostrarti?

Foto: Veduta parziale dell'installazione di Manfredo Beninati per la mostra “Memento” tenutasi nel 2010 alla Galleria La Giarina di Verona. “Lo studio dello scultore” costruito da  Beninati incarna quello che è l'immaginario comune di uno studio d'artista di inizio

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Proseguono i nostri incontri con gli artisti veronesi nell'ambito del progetto "Studi d'Artista". Puoi rileggere i precedenti servizi cliccando qui.


Per chi conosce Maïmouna (Patrizia) Guerresi e la sua produzione artistica è stato quasi uno shock consultare internet per qualche ricerca. Ci si accorge che della Patrizia Guerresi e della sua produzione artistica antecedente al 1989 quasi non c'è più traccia. Come se un colpo di spugna avesse cancellato anni e anni di ricerca, di lavori, di relazioni. Si trova molto invece su Maïmouna Guerresi. Addirittura due profili lievemente diversi su wikipedia (uno nell'edizione italiana e uno nell'edizione inglese). Relativamente a quello che per praticità chiamiamo primo periodo, sono citate solo due partecipazioni alla Biennale di Venezia (in totale sono tre: 1982-1986-2011) e la partecipazione a Documenta di Kassel 8 (1987).

Quasi la stessa cosa accade, consultando le biografie online e quelle nei cataloghi più recenti, relativamente alle mostre personali e collettive. Nessun riferimento a mostre del primo periodo. Naturalmente è logico dare risalto all'ultima produzione, ai lavori più recenti. Ci sembra eccessivo però che chi si avvicina al suo lavoro ora (come chi si è avvicinato negli ultimi anni) debba aspettare che venga organizzata un'antologica per conoscere l'esordio di Maïmouna Guerresi nel mondo dell'arte. Eppure i legami con la sua ricerca precedente

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Che cosa rappresenta lo studio per un artista? Un rifugio, un laboratorio, un luogo del pensare e del fare? E come provare a descrivere uno spazio che registra le tracce della creazione, il faticoso processo che porta dalla potenza all'atto, dalla mano all'opera? (...)

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La mia casa è un atelier e l’atelier è la mia casa. Ho sempre vissuto in case-studio. Non riesco a vivere con uno studio fuori della mia abitazione. Certo: è lo spazio in generale che mi fa vivere e creare. Esso è un'entità concettuale, e non solo fisica. A volte è un angolo angusto, a volte è una dimensione illimitata, indefinita. È una realtà che non preesiste, che non si dà a priori, ma che è il risultato di una serie di relazioni che si sviluppano tra persone e cose. La mia casa-studio accoglie chi ama entrare in un luogo creativo, ricco di idee, libero nell’anima.
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Non ho nostalgia di case precedenti, mi trovo in questo spazio abitativo perché la vita mi ha portato qui e sono contenta di esserci. Molti dei miei lavori sono in spazi pubblici: quindi una parte di me è sempre in contatto con il mondo esterno, dove mi auguro di trasmettere positività. Nelle mie stanze si possono incontrare bozzetti,

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“Entrare in uno studio è anche andare oltre, uscirne, perdersi, sognare. Soprattutto è nascere insieme con l'artista, essere generati o rigenerati dalle sue opere. Trovarsi di fronte al suo paradossale autoritratto.” (...)

La parola Atelier mi fa pensare a un luogo appartenente alle abitudini di un tempo quando si andava all’Atelier per comprare oggetti belli o abiti eleganti fatti a mano. Mi sembra di sentirne l’odore e i suoni e mi fa provare un senso di strana segretezza. Poi sono arrivati gli “Atelier des Artistes”, dove succede un po' di tutto: il passato si combina con il presente, il privato con il pubblico. Sono spazi tutti per sé, ma anche spazi aperti al mondo che, in fondo, è l’unica vera dimensione dove l’arte ha bisogno di stare. Per me lo studio è uno spazio di lavoro e di non lavoro, dove faccio cose diverse, dove sto molto da sola e allo stesso tempo incontro persone; ci sono cose per terra, cose in lavorazione, cose che cerco invano di tenere in ordine, libri sparsi qua e là, oggetti che amo, tanta musica. Molte cose, sono spesso imballate, perché sono parti di installazioni. Così chi entra non ha una immediata visione delle opere, perché le percepisce solo parzialmente. Chi viene, incontra sostanzialmente me, in quanto

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“Entrare in uno studio è anche andare oltre, uscirne, perdersi, sognare. Soprattutto è nascere insieme con l'artista, essere generati o rigenerati dalle sue opere. Trovarsi di fronte al suo paradossale autoritratto.” (...)

I lavori degli ultimi dieci anni di Daniele Girardi sono stati esposti nella nostra città alla Galleria La Giarina (“Bivacco 17” nel 2016 e “I Road” nel 2011) e a Palazzo Forti (“The Gentlemen of Verona” nel 2012). Ma accedere alla sua casa-studio dà proprio l'impressione di entrare nelle sue opere. E non solo perchè alcuni elementi dell'arredamento sono fatti con assi grezze (come quelle che ha usato per costruire il rifugio nella mostra “Bivacco 17”), ma anche perchè sono appesi alle pareti elementi di sue opere e installazioni esposte.

Amo definire questo luogo “bivacco”, il mio bivacco. Non è molto diverso ma più confortevole delle strutture che allestisco in occasione di mostre o in cui trovo rifugio durante i miei viaggi nelle magiche aree wilderness, attraversate in solitaria...

Sopra il caminetto è incorniciata una foto in bianco e nero che a prima vista potrebbe essere scambiata per quella di qualche mio antenato. E che invece è il ritratto di Thoreau, un ritratto incorniciato che ormai da anni mi segue nei miei traslochi. Il filosofo, scrittore e poeta statunitense Henry David

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“Entrare in uno studio è anche andare oltre, uscirne, perdersi, sognare. Soprattutto è nascere insieme con l'artista, essere generati o rigenerati dalle sue opere. Trovarsi di fronte al suo paradossale autoritratto.” (...)

Segue l'intervista a Gianmaria Colognese e le foto del suo studio.

… Ho sempre voluto fare studi artistici ma da giovane ho dovuto mediare con i miei genitori che non volevano facessi il Liceo Artistico. Quindi mi sono iscritto al Liceo Scientifico di Verona e poi alla Facoltà di Architettura a Venezia. Mi sono laureato nel '73 e il mio primo studio l'ho aperto insieme all'architetto Maurizio Casari: studio e laboratorio, perchè lì si alternava la progettazione alla pratica della scultura. Per una decina d'anni ho fatto quasi esclusivamente l'architetto di edifici e di interni.

Ma la passione per l'arte mi ha sempre accompagnato. A 15 anni mi sono comprato il primo libro d'arte su Boccioni, scritto da Guido Ballo, ormai una reliquia che conservo gelosamente. Frequentavo le varie gallerie di Verona (soprattutto la mitica Galleria Ferrari) e quelle di Venezia. Al Liceo ero in classe con Davide Antolini (altro artista veronese, ndr) che ha presentato la mia prima mostra personale alla Galleria Cinquetti di Verona nel 1985. In precedenza avevo esposto solo delle opere in Gran Guardia durante una festa della matricola.

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