moro

Sabato 12 marzo 2011 alle 21.00 nella Cattedrale di Verona la rappresentazione in prima italiana dell'opera lirica da camera MORO-Opera Tragica in un atto. (ingresso libero)

Libretto di Marco Ongaro - Musiche di Andrea Mannucci


Con la compagnia Opéra de Poche di Parigi
Direzione musicale di Andrea Mannucci
Messa in scena e scenografia di Luigi Cerri

Personaggi ed interpreti:moro3

Moro - Vincent Billier (baritono)
Angelo - Xavier Mauconduit (tenore)
Cassandra - Eva Ganizate (soprano)
Corifeo - Silvia Scartozzoni (soprano)
Coro: Coro A.LI.VE diretto dal maestro Paolo Facincani

Orchestra da camera Ned Ensemble : Daniele Pienagonda (flauto), Lorenzo Marcolongo (clarinetto), Mario Scalari (percussioni), Maria Odorizzi (violino I), Flavio Bortolotti (violino II), Igino Semprebon (viola), Annalisa Petrella (violoncello)

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Una piccola stanza con le pareti coperte di specchi: è l'ultimo atto della vita di Aldo Moro, politico italiano e progressista democratico, rapito dalle Brigate Rosse. Il finale ci è noto: 9 maggio 1978, il suo corpo senza vita è ritrovato nel bagagliaio di una macchina a Roma. Una notizia di cronaca recente, la cui crudeltà, la cui freddezza inumana ricorda la barbarie dei miti più antichi. In quest' opera, immaginando i dialoghi di Moro, l'Angelo e Cassandra negli ultimi giorni della prigionia del Presidente, il librettista Marco Ongaro e il compositore Andrea Mannucci traspongono la nuda cronaca e la Storia nell'ambito sacro della tragedia classica, restituendo al teatro cantato la sua funzione significatrice e trascendentale di fronte a una società ammutolita.

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Marco Ongaro risponde...

D: In qualità di lettrice del libretto e di “testimone oculare” dell’opera rappresentata in “prima” mondiale a Parigi, dove ho assistito a un’ovazione generale alla fine della rappresentazione, le chiedo, innanzitutto, di parlarci di come è nata la sua esigenza di scrivere un libretto d’opera su questo fatto di cronaca avvenuto più di trent’anni fa.

R: Dopo un’opera buffa come Il cuoco fellone e un ritratto biografico come Kiki de Montparnasse, che aveva appena debuttato a Parigi nell’aprile 2007, ho sentito la necessità di cimentarmi in una terza prova drammaturgica operistica, sempre per il compositore Andrea Mannucci, che impegnasse delle corde liriche più tragiche. L’immagine di Moro mi è apparsa come un’ispirazione fulminea. Da lì, naturalmente, è iniziato lo studio del soggetto e del tipo di approccio poetico con cui trattarlo. Ho visto che già esisteva un tentativo di rappresentazione musicale contemporanea della tragedia per eccellenza della nostra Repubblica, e ho rilevato che l’intervento innovativo poteva essere imperniato prima di tutto sul libretto. La poesia è indispensabile per indagare eventi così traumatici. Non c’è alternativa. Se nessuno l’aveva ancora fatto, era mio dovere di autore occuparmene. Devo dire che Andrea Mannucci ha poi dato un’impronta ancora più significativa al mio intento, offrendo un apporto musicale di grande spessore e incisiva sensibilità.

D: Per quanto riguarda la messa in scena, nello specifico, ho notato che le indicazioni da lei date sulle ambientazioni, e per questo, ne deduco, strettamente legate alla tragedia, sono state interpretate dal regista in maniera leggermente diversa. In che relazione si trovano il libretto, da cui l’opera è nata, la musica, e la messa in scena finale?

R: Una volta compiuta la stesura drammaturgica, Mannucci ha sudato su ogni verso e su ogni parola, chiedendomene conto in sedute di analisi di cui mi piacerebbe adesso avere registrazione. La sua indomabile sete di compenetrazione del testo non poteva che sortire un risultato miracoloso, con un impatto sonoro iniziale che ritrae il dramma nella sua violenza per poi assottigliarsi mano a mano che le sorti umane del Presidente si fanno più intime, sovrapponendosi e accomunandosi alle sorti di qualunque individuo mortale giunto alla fine del suo viaggio terreno. Una felicissima coesione tra testo e musica, per quanto l’aggettivo si possa applicare a una tragedia. La messa in scena era concepita staticamente come può esserlo una prigionia, la costrizione in un  luogo angusto da cui solo in forma di spirito ci si potrà affrancare. Il lavoro del regista Luigi Cerri dunque non era facile, da giocarsi sui primi piani e sulle emozioni più che sull’azione. Un primo piano al cinema lo si fa facilmente, ma in teatro? Lì sta la bravura.

D: Le scelte registiche di Luigi Cerri, bravissimo nell’interpretazione del lavoro suo e di Andrea Mannucci, ho notato che si sono scostate leggermente dal suo intento drammaturgico teso soprattutto a mettere in primo piano la tragedia della solitudine dell’Uomo di fronte alla Morte, con tutte le speranze e le aspirazioni future che essa rende vane (la vicenda di Moro sembra quasi un pretesto per parlare di questo momento catartico nella vita di ognuno di noi).

R: Ed è un pretesto, certo, un illustrissimo e gravissimo pretesto per sovrapporre alla figura del Presidente quella di Socrate e di Cristo, emblemi del pensiero umano e religioso di fronte alla mortalità dell’uomo. Luigi Cerri ha interpretato le pur vaghe indicazioni di regia con l’impegno di un serio professionista che non ha rinunciato a far trapelare nella prigione di Moro alcuni raggi obliqui della quotidianità umana e dell’umana brutalità. Ma ha saputo salvaguardare il travaglio intimo dell’uomo che si avvia verso la fine, illuminando da vicino sentimenti e timori, tentennamenti e coraggio, come meglio non avrebbe saputo fare una macchina da presa.

D: Una tragedia quindi senza tempo né spazio. L’inserimento qua e là di elementi di cronaca vera, di quella cronaca, come i costumi del coro che volevano ricordare i brigatisti, non le sembra che abbiano tolto peso all’universalità del tema da lei affrontato?

R: No. Il rischio c’era, certo. Ma nell’insieme la scommessa è vinta. Le intrusioni del reale sono così brevi eppure stridono a tal punto da risultare brutali, intenzionalmente. E ho capito il pensiero di Cerri, che per contrapposizione ha reso ancora più alto il lavoro spirituale che avviene nell’animo di Moro. Ogni intrusione, necessaria, del Coro, con l’elenco delle vittime della Scorta, ad esempio, trova poi corrispondenza in nuove intimità spirituali che ne traggono ulteriore forza.

D: È vero che il coro e il corifeo nella tragedia antica rappresentavano la coscienza collettiva e spesso erano in vesti quotidiane. Si è voluto secondo lei contestualizzare la tragedia e renderla in qualche modo riconoscibile?

R: La contestualizzazione serve solo a non cadere nell’errore inverso, quello di rappresentare Orfeo con la chitarra elettrica, per intenderci, o Eracle mentre gioca in Borsa. Se la tragedia tratta un tema attuale, con una forma vagamente classica, è bene che l’ambientazione rimanga nel presente così da evitare un’eccessiva stilizzazione che toglierebbe pathos all’evento. Approvo pienamente la scelta di Cerri in tal senso.

D: Detto questo, ci parli delle figure di Cassandra, profetessa inascolta e voce laica delle coscienze, e dell’Angelo, custode impotente, che come spettri dialogano con l’Uomo.

R: Cassandra è la Poesia, la consapevolezza tragica in sé. Dialogare con lei è dialogare con la verità, l’esperienza personale estrema trasmessa da individuo a individuo dinanzi al capezzale. Non si può prescindere dalla verità nel momento massimo che da essa prende il nome. L’Angelo è il rappresentante di Dio, è colui che combatte con Giacobbe tutta la notte e dà il nome a Israele. L’Angelo è la religione di Moro e la religione in senso lato, la “scienza” dell’aldilà e la fede nell’eterno. È la pietà che Cassandra non può esprimere, così come lei è l’orgoglio umano che l’Angelo non è. Entrambi gli spettri sono insostituibili nel viaggio di preparazione alla morte. L’opera è una sorta di iniziazione al mistero, di percorso simbolico verso la fine che tutti ci accomuna.  Moro allora diventa Socrate e Cristo, diventa tutti noi. Era un uomo politico, adesso è un uomo, e la sua funzione sociale precedente rende solo più esemplare e dolente il suo/nostro addio.

D: Premesso che quest’opera tocca l’animo di ognuno di noi e che il poeta sa, con la propria arte, farci da specchio, solo un’ultima cosa: lei come Uomo che rapporto ha con la solitudine della Morte?

R: Come ogni uomo mediamente consapevole, ci penso sempre. E nel farlo, penso sempre alla vita. Scopro ogni giorno un’occasione migliore di vivere. La morte è solitudine nel passaggio. Scriverne, abbracciando nella scrittura i miei simili, è prepararmi a sentirmi meno solo quando verrà per me il momento della verità.

Stefania Tramarin



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