Molto_rumore_per_nulla_sepe_LEPERAContinuano le prime nazionali per il Festival Shakespeariano al Teatro Romano, e sempre all'insegna della tragicommedia. Perché mentre la tragedia di Shylock era stata compresa nella caciara (amara) di Valerio Binasco, ora è invece una sottile vena d'impegno e disillusione a insinuarsi nei toni più farseschi di William Shakespeare.

Guidata dalla coppia Inaudi-Liotti e riadattata dal regista Giancarlo Sepe, Molto rumore per nulla scende infatti dalla nobile corte d'Aragona fino a confondersi tra la gente comune, che vive sulla strada. L'allestimento mette in scena la periferia di Messina, in quello che si scopre essere un campo nomadi di rovine e rifiuti ammassati, dove le storie degli amori di Beatrice e Benedetto, e di Claudio ed Ero, si colorano di canti popolareschi e danze gitane.

Il doppio intreccio amoroso richiama ancora una volta la trama del Mercante – e si rivela infine una delle tecniche compositive più felicemente impiegate in tutto il teatro di shakespeariano. Due storie d'amore che s'intersecano e sostengono a vicenda: amore chiama amore, in una giostra di conflitti e seduzioni che si nutre e consuma di se stessa, e che due secoli dopo assumerà i toni ancor più farseschi di Marivaux, in quel Gioco dell'amore e del caso ospitato proprio a Verona lo scorso inverno, al Teatro Nuovo.

Giancarlo Sepe ci racconta tutto questo mettendo in atto un'ulteriore mise en abyme: la finzione scenica diviene evidente già dall'inizio, al primo ingresso degli attori. Ed è da subito una grande danza, assai ritmata, mentre al centro di un immaginario ring si susseguono gli incontri-scontri principali, e il resto del cast attende seduto ai lati, commentando col batter dei ventagli, con battute ironiche e taglienti. Spesso non sono nemmeno parole, ma una presenza fisica invadente, spinta fino al limite del volgare e dell'eccesso, che ruba rumorosamente la scena alle battute dei protagonisti. Un intenso substrato dialettale colora poi i dialoghi, invitando spesso al riso: il veneto si mescola al siciliano, ma anche lo spagnolo e l'inglese trovano larga parte, mettendo infine in evidenza un gioco delle parti intemperante e volutamente fanfarone.

Perché uno dei tratti più caratteristici di questa pièce, evidenziato con forse fin troppa irruenza dalla regia di Sepe, è proprio la continua tensione tra genuinità e finzione. Nella prima metà dello spettacolo (almeno fino all'intervallo) è l'affettazione che regna sovrana, fin quasi ad infastidirci, con personaggi privati di un reale spessore psicologico e tratti farseschi esageratamente accentuati. Ma la seconda parte rovescia e risolleva il tutto, rivelandoci l'enorme complessità del gioco dei sentimenti che si cela all'origine. A sostenerla, una recitazione a metà strada tra l'artefatto e il liberamente scanzonato: Liotti non è mai perfetto, ma splendidamente autoironico; la Inaudi è certo più intensa ed emancipata, ma anch'essa cederà infine al proprio ruolo. Che dietro all'essere attori, uomini o donne, rimane sempre quello, debole e contraddittorio, dell'essere umani.

       Simone Rebora

 
Molto rumore per nulla da William Shakespeare
fino al 13 luglio al Teatro Romano di Verona
Francesco Bellomo – L'isola trovata
Fondazione Atlantide Teatro Stabile di Verona
in collaborazione con Estate Teatrale Veronese
traduzione, adattamento e regia di Giancarlo Sepe
con Francesca Inaudi e Daniele Liotti
scene e costumi Carlo De Marino
light design Stefano Pirandello
musiche Harmonia Team in collaborazione con Davide Mastrogiovanni
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